Capitolo 1 - Andando in Perù
Trieste, sabato 6 aprile 2002 Sono in cucina di casa mia, ma la testa è già in Perù. Dal frigorifero prendo le confezioni d'insulina, che ho lasciato lì dentro al fresco fino all'ultimo apposta. Strappo il sigillo. Estraggo le fiale, e le sto per infilare nella borsa degli attrezzi, quando mi pare che abbiano qualcosa al tatto che non va bene. Sono le cinque della mattina. Il vetro delle cartucce, per lo sbalzo di temperatura, è ormai completamente appannato. Anch'io sono ancora un po' appannato. Controllo la scritta. Zio caro! Dove doveva esserci stampato un tre, c'è uno striminzito uno virgola cinque. Vatti a fidare dei medici! E dei farmacisti! Sono cartucce che non vanno bene per le dimensioni delle mie penne! Sono identiche a quelle che servono a me, solo più strette. Troppo strette! Inadattabili, poi! Zio caro! Me le hanno date in farmacia non più tardi di ieri. Scemo a non controllare. Sono nella merda, e sono anche senza una ricetta. Farò in tempo a procurarmi le cartucce giuste di insulina? Il volo per Milano decolla fra un'ora. Ma pensa te! Immediatamente approfitto di Livino, generoso come sempre, e della sua macchina. Con lui c'è anche mia madre, che in questi momenti non manca mai. Per contratto. Mi dovevano accompagnare a Ronchi, ma li costringo a questo piccolo cambio programma, che lascia imperterrito lui, mentre ingrigisce mia madre sempre tetra nelle previsioni di successo di soluzioni in extremis. Dentro la piccola bacheca illuminata della prima farmacia che incontriamo leggo la famigerata lista dei turni di servizio. Via Bernini! E dove cacchio è?! Sono ancora appannato. C'è il telefono. Chiamo il numero. Il farmacista all'altro capo del filo, con una voce addormentata come poche volte ho sentito in vita mia, dice che non ha insulina, e che in ogni caso senza ricetta non mi avrebbe dato nulla, e riaggancia. STOP! Sempre gentile! Il tono di centrale, e quello del farmacista, mi hanno fatto rammentare quale farmacia sia. Sempre gentile! Già il mio vecchio babbo ne aveva avute di disavventure con quel fenomeno. Ringrazio il vuoto, e corro al pronto soccorso dell'ospedale, ma niente da fare nemmeno qui. Niente insulina. Figurarsi cartucce per penne. Senza ricetta poi. Mi resta un'ultima speranza: la guardia medica. La palazzina è vuota. Busso sulla porta dove sta scritto medico di guardia, ed aspetto. Dopo un po' mi apre un addormentato ragazzone rubicondo, sconvolto nei capelli, e nelle espressioni. Dice che lui non è la guardia medica, e mi manda al primo piano. Al primo piano busso alla porta con scritto guardia, ed aspetto. Mi apre una mora in calze a rete, e body di pizzo fucsia… …? Rimango di merda, ma peggio reagisce lei. Sta evidentemente aspettando qualcun altro, anche perché ha aperto senza chiedere chi fosse. Appena mi vede fa un piccolo salto all'indietro, e richiude la porta di scatto. Da oltre il legno mi dice di bussare alla porta numero centotrenta. Aggiunge di bussare forte, perché dormono tutti. Io invece alla porta numero centotrenta busso piano. Niente. Aumento. Niente. Busso forte. Niente. Quasi butto giù tutto, e finalmente apre uno. È molto distrutto. Ha il camice addosso, ma è a pezzi. Finito. Come se avesse festeggiato capodanno stanotte. Magari è stato il body di pizzo color fucsi che l'ha ridotto in questi stati. Attendo un cenno di vita. Lo zombie fa un movimento brevissimo con il capo. Ok! È vivo! Il segno che aspettavo. Gli spiego chi sono, e la faccenda dell'errore in farmacia. Mi guarda perplesso. Continuo a parlare, ma immediatamente percepisco nitido che non è un medico quello che mi sta guardando perplesso, ma un detective. Mi scruta, ora. Sta controllando qualcosa. Sembra chiedersi se quest'energumeno, semi agitato, che lo ha buttato giù dal letto all'alba, non lo stia mica cercando di fregare. Passano i secondi, e realizza la mia buona fede. Il certificato internazionale di diabetico lo deve avere convinto. Mi fa una ricetta con una calligrafia tremolante, ed un inchiostro malaticcio. Pendant con lo scrivente.
Ronchi dei Legionari, sabato 6 aprile 2002 Arriviamo all'aeroporto di Ronchi che si sono imbarcati già tutti. Faccio appena in tempo a fare il check-in, e dovrei imbarcarmi direttamente, ma rubo ancora un po' della pazienza di tutti gli altri passeggeri, e mi fiondo al banco informazioni Alitalia, a cercare un modo per procurarmi l'insulina. Chissà se il mio esser socio del club mille miglia mi garantisce qualcosa in più in situazioni del genere? L'ossigenata hostess del banco informazioni Alitalia non è molto attenta ai miei problemi, anzi, pare proprio che non gliene freghi un cazzo. Dice che farà in modo che io possa risolvere tutto all'aeroporto di Malpensa. Io, invece penso che sarebbe meglio una semplice telefonata fatta da questa trasparente hostess sintetica alla farmacia dell'aeroporto di Malpensa, così, nel tempo tecnico di arrivare a Milano, sarebbero in grado di rifornirsi di una scatola con il dosaggio corretto della mia insulina, che avrei preso con la ricetta del medico di guardia, e risolto il problema. Se vuole può mandare un fax della ricetta alla farmacia, risponde. Che cazzo me ne frega di mandare il fax di una ricetta in un posto dove me ne possono fare un'altra al volo al momento. Dice che cercherà di fare il possibile. Vorrei tirarla oltre il banco, e spiegarle a calci in culo che il possibile che lei non sa se ancora potrà fare o meno è una stronzissima telefonata, o alla più sporca sto benedetto fax, ma fortuna sua, mi chiamano sull'aereo. Appena imbarcato, chiedo gentilmente scusa all'equipaggio per l'attesa, e questi sorridono. I passeggeri invece, mi guardano infastiditi. Approfitto di una delle hostess, e le chiedo se potrebbe farla arrivare lei la mia richiesta alla farmacia di Malpensa, magari via radio, così all'aeroporto hanno il tempo di procurarsi l'insulina. Dice che chiederà al comandante. Resto a disposizione, le dico, e mi viene da ridere pensandoci. Vado a sedermi. Dopo un paio di minuti ripassa. Dice che è tutto risolto. A Malpensa mi aspettano già con la mia insulina. WOW, penso! Che efficienza. Così, tranquillizzato, mi addormento. Dormo tutto il volo.
Malpensa, sabato 6 aprile 2002 Una sedia a rotelle aspetta qualcuno allo sbarco dall'aereo. Al momento non penso sia per me. Poi, la ragazza piena di riccioli che è ferma sugli attenti dietro la sedia a rotelle fa un cenno di domanda all'hostess, e quest'ultima indica me. Io penso: io? Capiamo tutti che non ci siamo capiti, ma mentre l'hostess ed io scoppiamo a ridere, la ragazza piena di riccioli no. Sembra non gradire l'equivoco. Forse ha l'ossessione di spingere la carrozzina? Potrei approfittarne, potrei sedermi, e potrei farmi portare in giro per Malpensa, ma invece no, le risparmio la fatica. Vengo con le mie gambe, le rispondo sorridendo. Piena di Riccioli non sembra gradire la mia premura. Silenziosa, e poco socievole, mi conduce ad un ascensore e preme il bottone del piano seminterrato dell'aeroporto dove c'è il Pronto Soccorso. Arrivati al sotterraneo, si sporge dell'ascensore, e tenendo la mano sul catadiotttrico della fotocellula per la chiusura automatica delle porte, con sgarbo, mi mostra dov'è l'entrata del Pronto Soccorso. Poi aggiunge che quando avrò finito al Pronto soccorso dovrò fare, e lo sottolinea con il tono di voce, la strada che abbiamo fatto assieme. La stessa, solo al contrario, non altre, mi saluta, e senza aspettare una mia risposta se ne va con l'ascensore con cui eravamo scesi. Gran bel posto il seminterrato di Malpensa! Infonde talmente tranquillità e sicurezza, che così, da solo, la prima cosa che è potuta venirmi in mente è stata che da un momento all'altro sarebbero spuntati da un lato mister Bruce Willis a caccia di musulmani terroristi, e dall'altro, musulmani terroristi a caccia di mister Bruce Willis, e la frittata sarebbe stata fatta. Proprio un bel posto. Da farci, restando in tema di frittate, le scampagnate, ed i picnic. Il pensiero successivo a quello della frittata, è stato per un'altra frittata, solo che sta volta ero io a farla. Là sotto, da solo, senza controllo bagaglio, nella semioscurità, sarebbe un gioco da talebani fare il primo festival delle frittate a Malpensa. Al Pronto Soccorso, la ragazza dell'accettazione appena mi vede mi dice che mi stava aspettando, solo che era convinta di dovermela fare l'insulina. No, non F-A-R-E. D-A-R-E. A me serve da portare via. Mi dice che loro non me la possono dare, che devo andare a prendere in farmacia. Ma dai? Non me lo sarei mai aspettato. Le chiedo ancora se posso almeno gentilmente parlare al telefono con la farmacia. Dall'altro capo del filo una super voce, caldissima, dice che hanno solo il flacone da cui prelevare con la siringa le unità. Non va bene, ma voglio andare a vedere di persona. Se non altro per la voce. Ringrazio. Saluto. E torno indietro. Saluto mister Willis, i ragazzi talebani, e risalgo alla luce dei piani abitati, e vissuti di Malpensa. La proprietaria della voce caldissima in farmacia, è un orribile ragno tinto, permanentato, e scocciato di vivere. Che delusione. In più il flacone di insulina non va bene. Peccato. Inoltre, dice che la mia ricetta ha valore d'esenzione solo in Friuli Venezia Giulia, qui, a Milano, avrei dovuto pagare. Pagare? Si! Pagare! Scopro con sano orrore di cittadino europeo, che la mia insulina, richiesta con una prescrizione medica triestina, uguale alle ricette milanesi peraltro, costa trentatré euri. Zio bello! Io temevo che avrei potuto incontrare problemi a procurarmi insulina in viaggio, in giro per l'Europa, ma nella stessa mia Italia non avrei mai pensato. Vabbé va. Rinuncio. La cosa migliore a questo punto è mettere in moto il piano B. L'alternativa Rocio. Rocio è una biologa peruviana amica e collega di mia sorella Fulvia, ed il giorno venti, o giù di lì, da Trieste tornerà a casa dal padre a Lima. Tra i suoi bagagli avrà un minuscolo pacchetto per me con dentro insulina, e carta di credito nuova. Si, perché, ironia della sorte, la mia carta di credito scadrà a fine aprile, ma l'avviso di raccomandata per andare a ritirare la nuova in posta è arrivato appena ieri mattina, ed il pomeriggio non esiste la posta nel mio barrio. Un po' di latinamerica anche da noi, corridori globalizzati. Il volo per Caracas ha il numero 666. Gli inglesi, i francesi, anche molte compagnie americane, e parecchie orientali, avrebbero saltato questo numero. Alitalia: no! ma sarebbe stato meglio se lo faceva. A bordo ho il posto di fianco ad un ragazzino, che, appena io mi siedo, si alza, e sparisce. Dopo un po', lo sostituisce una ragazzina. Sono circondato da ragazzini. L'aereo ne è pieno. Sono quasi tutti peruviani che rientrano da un soggiorno a Mantova, spiti in case private di ragazzini italiani nell'ambito di un progetto di scambio di studenti liceali. Nei due posti dietro invece ho due ventenni napoletani, con gli zaini pieni di preservativi, che stanno andando sulle spiagge di Los Roques a prendersi tutto dalla vita. Per ora si stanno riscaldando con le ragazzine della classe peruviana. Nel cibo devono aver messo del sonnifero. Dormo tutto il viaggio.
Caracas, sabato 6 aprile 2002 È sempre sabato, e sono ringiovanito d'alcune ore. Forse sei o sette, ancora non lo so bene, ma è così. Se fossi rimasto a Trieste, a quest'ora, e mai è stato così preciso, sarei stato più vecchio. Allora la macchina del tempo esiste. Ci sarebbe solo da perfezionarla. Appena sbarcato dall'aereo, un baffetto in pantaloni blu, camicia bianca, e lucida targhetta identificativa al petto, mi blocca, e mi domanda se volo Taca su Lima. Gli rispondo di sì, aggiungendo che però devo fare ancora il check-in. Il baffetto sorride, e dice che fa tutto lui. Seee… Insiste! Dice che deve fare tutto lui. Da dopo l'undici settembre. Anche qui?! Non dovrei fidarmi, infatti, non mi fido, ma il baffetto non mi lascia fare. Devo far fare il mio check-in a lui così, al volo, nel bel mezzo del bollente aeroporto di Caracas! Vabbè! Fatto il check-in-on-feet, cerco un bagno per darmi una rinfrescata. Figurarsi. L'aeroporto bolle letteralmente. Nei bagni la temperatura è insopportabile. Per evitare altre storie, decido d'infilarmi dritto in sala d'aspetto. All'entrata c'è lo stesso baffetto del check-in al volo. Faccio per passare, ma il baffetto mi blocca chiedendomi dove vado. Le cose sono due. O il baffetto ha un fratello gemello, oppure è rintronato di brutto. Mi hai fatto il check-in cinque minuti fa, ricordi? Ricorda! E così facendo ammette che è rintronato di brutto! Inoltre, se per caso non ci fossi arrivato già da solo, rincara la dose volendo vedere la carta d'imbarco. Guarda che me l'hai data tu con le tue mani poco fa. Niente. Gliela mostro. Vuole anche il passaporto. Ehi, ehi, ehi. Sono io, quello di prima. Zio porco! Ok, ok, avrei potuto cambiarli nel minuto che non ci siamo visti, ma a che pro? Gli rimostro tutto. Il baffetto gode, e mi lascia entrare. In sala d'aspetto scambio quattro chiacchiere con un siciliano di nome Biagio che vive, e lavora, a Lima. Gli confesso che non lo invidio per niente, immaginando cosa possa essere vivere, e lavorare, a Lima. Ho sempre cercato di evitare le metropoli sudamericane. Biagio infatti conferma che Lima è impossibile per tutto, e che ci rimane soltanto perché ha la fortuna di insegnare, e vivere, in un campus che è un parco verde, quasi un'oasi irreale, nel cuore di Lima. Però quando esce, sono dolori. Dice che a Lima ci sono delle cose che bisogna fare, ed in perfetto stile italiano come prima mette la cucina tipica. Raccolgo due o tre nomi. Poi ci chiamano a bordo. L'aereo è nuovo di pacca. A momenti ci sono ancora i nylon sui sedili, e l'odore dei veicoli appena usciti dal concessionario. Anche le hostess sono nuove di pacca, e faccio fatica a scegliermene una come contatto unico per il viaggio. Aspetto più del previsto, ma le novità aereo, de hostess, mi distraggono. Poi, finalmente, l'aereo decolla. Mi aspettano quattro orette di volo. Poco dopo il decollo Taca ci da dei panini caldi. Dentro ci devono aver messo anche del sonnifero, visto che dormo ancora, per tutto il viaggio. Anche se, a far bene i conti, per il mio orologio biologico è notte fonda, ed è normale che io abbia sonno, resto dell'idea che il cibo delle compagnie aeree contiene anche qualcosa che, dicendola con un eufemismo, coadiuva la pennichella.