Vascotto

Da il piccolo di Trieste di venerdì 11 febbraio 2022

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Il Giorno del Ricordo

Fabio Vascotto non aveva ancora 19 anni quando lasciò Isola precedendo la famiglia

«In quella baracca di Opicina 24 letti a castello senza pavimenti»

DA ISOLA

di Daniele Lettig

Istriano di Isola, dove nell’infanzia ha vissuto la guerra, l’occupazione tedesca e l’arrivo dei partigiani titini, Fabio Vascotto non aveva ancora 19 anni quando fu costretto a scegliere tra il possibile arruolamento nell’esercito jugoslavo e la forzata emigrazione in Italia. «Erano i primi mesi del 1954», racconta con memoria vivida dalla sua casa di Muggia, dove vive oggi che di anni ne ha quasi 87: «Arrivò una lettera che diceva di presentarmi al municipio, davanti al Comitato di liberazione popolare. Mi accompagnò mia madre, e ci dissero che ero obbligato ad andare a Fiume per un corso di apprendistato di sei mesi. In quel periodo girava la voce che si trattasse di un pre-addestramento militare. Temendo che potessero arruolarmi, lei rispose: “Mio figlio a Fiume non ce lo mando”. Mi diedero allora un modulo da riempire, sul quale c’era scritto che avevo sei mesi per emigrare in Italia».

Fu così che il 30 agosto 1954 Vascotto arrivò a Trieste «con altri cinque amici della mia età, su un camioncino, con solo una valigia di indumenti » e lasciandosi tutto alle spalle: «Il posto dove ero cresciuto, la mia famiglia, i nostri defunti in cimitero. Fu un dolore enorme». I primi mesi li passò al campo profughi di Opicina, «un baraccone in lamiera, ex deposito dei carri armati americani: 24 letti a castello, senza pavimento: in terra c’erano ancora i solchi dei cingolati». L’anno successivo, il trasferimento alla caserma degli inglesi in via delle Docce, a San Giovanni, «uomini da una parte e donne dall’altra, una grande vasca per lavarsi fuori all’aperto, e un solo bagno per 50-60 persone».

Durante una visita di monsignor Santin, allora vescovo, «alcune donne coraggiose gli si avvicinarono per raccontargli la situazione: grazie alla sua opera nell’arco di pochi mesi nella caserma furono sistemati dei divisori», creando dei box dove finalmente le famiglie poterono riunirsi. Compresa quella di Vascotto, che ad aprile 1955 aveva abbandonato anch’essa l’Istria. «Caricarono tutto su un camion: mobili, letti, masserizie. Li lasciarono al porto vecchio per riprenderli quando ci fu assegnata una casa» a Borgo San Sergio.

«Grazie a Dio», dice Vascotto, «ho trovato da subito lavoro come meccanico», aiutato anche dall’esperienza da apprendista maturata in un’officina di Isola, «poi nel 1960 vinsi il concorso all’Acegat, l’azienda trasporti, dove fui assunto come autista». Malgrado i confini ormai aperti e la pochissima distanza «non ho molta voglia di tornare a Isola», dice Vascotto: «Qualche volta vado in cimitero, o alla messa per il patrono San Mauro. Ma poi passo nella strada dove sono nato, in via Pietro Coppo 13, nella casa dove sono nato, che mio nonno comprò nel 1922, e quando rientro a Trieste mi resta solo un magone».

Dell’Istria restano i ricordi belli della gioventù, come «le partite di calcio dell’Ampelea, che nel 1944 vinse il girone triveneto del campionato Alta Italia». E poi le attività della “Giacinto Pullino”, la società nautica di Isola. Nata nel 1925, fu rifondata a Muggia nel 1960, «dopo la vittoria del nostro conterraneo Nino Benvenuti alle Olimpiadi di Roma»: Vascotto ne è il presidente dal 2011. «Io non facevo canottaggio», rammenta, «ma i miei amici sì, eravamo sempre in compagnia e qualche volta li accompagnavo al timone». Quando la maggior parte degli italiani andò via, nel 1954, «fummo costretti a lasciare lì barche, coppe, medaglie, libri, ricordi, che non si potevano portare: le guardie avevano l’incarico di bucare anche i materassi, per controllare che non ci fossero dentro oggetti preziosi da contrabbandare». —

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